Il territorio: luogo di identità e di scambio
Attività di alternanza scuola-lavoro. 7ª Edizione 2009-2012
Nell'ambito delle attività di alternanza scuola-lavoro promosse dal Liceo Aristosseno e dalla Cooperativa NOVELUNE, sono stati analizzati - dagli allievi, i docenti e gli esperti - i principali attrattori turistico-culturali della città di Taranto. In particolare si è operato in tre direzioni:
Gli studenti, a fini didattici, hanno registrato i testi nelle quattro lingue, ascoltabili, in una campionatura, QUI. Le registrazioni effettuate dalle lettrici madre-lingua sono ascoltabili cliccando con il tasto sinistro del mouse sulla bandierina corrispondente alla lingua desiderata. Cliccando con il tasto destro, invece, è possibile scaricare i file e utilizzarli su lettori portatili (lettori MP3 e smartphone) ed ascoltarli durante la visita dei siti. I testi e i file audio presenti in questa applicazione sono liberamente utilizzabili per qualsiasi uso - escluso quello commerciale - citando esplicitamente la fonte. Novelune Scarl Masseria Vaccarella Quartiere Paolo VI · Taranto Liceo Ginnasio Statale "ARISTOSSENO" Viale Virgilio, 15 · Taranto |
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Itinerario archeologico nella Taranto greca e romana | |||
Cinta muraria di Collepasso
Resti del circuito murario del V sec. a. C. , che difendeva l'abitato verso est e che si dirigeva in questo tratto verso la costa di Mar Piccolo, furono messi in luce nel 1987 nell'area di Collepasso.
Oggi conservate solo a livello di fondazione, le mura erano realizzate con un doppio paramento di blocchi di carparo, con setti trasversali di collegamento e riempimento interno; in alcuni tratti rimane un'assise relativa all'elevato, con blocchi sistemati per testa lungo l'allineamento tracciato a ridosso del filare di fondazione. Si segnala – in conformità alle caratteristiche costruttive di altri tratti della fortificazione – la presenza di torri, di una porta, corrispondente ad un tracciato viario, e di un fossato, largo circa 15 metri, esterno e parallelo alle mura. Nella stessa area, all'interno del circuito, vennero individuati diversi nuclei di sepolture, databili tra la fine del V secolo e i primi decenni del IV a.C. Si tratta di tombe di varia tipologia: a sarcofago o a fossa – scavata nel banco roccioso o rivestita con lastre calcaree – generalmente con controfossa. Le sepolture erano provviste di copertura con lastroni di carparo, mentre quelle infantili erano coperte da lastre di terracotta, tegole o coppi. Questo settore prossimo alle mura viene successivamente destinato a sfruttamento agricolo, come dimostra la complessa rete idrica – costituita da canali e pozzi – legata all'utilizzo di acque piovane e sorgive. |
Acquedotto romano
Lungo lo spartitraffico di corso Italia sono visibili i resti di un lungo acquedotto costruito – sulla base delle testimonianze epigrafiche – dopo l’anno 8 a.C. L’impianto di rifornimento idrico, noto con il nome di Aqua Nymphalis, era legato alla fruizione pubblica e alla gestione degli impianti termali.
Tale acquedotto portava in città le acque della sorgente di Saturo – località costiera nei pressi di Leporano – attraverso un condotto in parte sotterraneo e in parte in elevato, che entrava nell’area urbana periferica con un settore a muratura continua. I resti attualmente visibili sono realizzati in opus reticulatum, tecnica costruttiva a tessuto regolare di blocchetti di carparo a base quadrata. Da corso Italia l’acquedotto giungeva sino all’altezza di via Umbria, dove l’acqua veniva in parte raccolta all’interno di una cisterna ipogea a due camere, ed in parte fatta defluire verso la città, tramite canali scavati nel banco calcarenitico, condutture fittili e tubature in piombo. La costruzione di questo acquedotto diede un notevole impulso allo sviluppo degli impianti termali, sia pubblici che privati, ampiamente diffusi in città. |
Cinta muraria di via Emilia
Nell'area che fiancheggia a destra la Chiesa della Madonna della Fiducia, tra corso Italia e via Emilia sono visibili alcuni tratti del circuito murario della polis greca, relativi al settore sud-orientale che – in linea retta – si dirigeva verso la costa di Mar Grande.
La struttura – impostata su un piano di argilla e pietrame e conservata per un tratto di circa 70 metri – risulta costituita da due paramenti di blocchi tufacei regolari, posti ad una distanza di m. 4.20, con setti trasversali di collegamento e riempimento interno. Osservando i blocchi superstiti è possibile rilevare importanti dati sulla tecnica costruttiva: alcuni di essi presentano, infatti, incassi laterali per il sollevamento e lettere greche iscritte, corrispondenti a marchi di cava e funzionali alla messa in opera. Questa prima fase costruttiva è inquadrabile – sulla base dei dati di scavo ed epigrafici – fra il 450 e il 430 a.C., mentre ad un rifacimento successivo – di III sec. a.C. – è riconducibile l'opera muraria, che a questo circuito si sovrappone, realizzata in blocchi irregolari e in maniera poco accurata, probabilmente nel corso delle ricostruzioni seguite alla prima conquista romana. |
Fornace di Corso Annibale
Nella città greca, fra gli spazi abitativi veri e propri e le necropoli, vi erano delle aree occupate da impianti produttivi per la lavorazione dell'argilla. La produzione di ceramica e statuette, attestata a Taranto già nelle fasi successive alla fondazione della colonia greca, perdura fino ad età romana e rappresenta certamente una delle attività artigianali più importanti.
Nel 1980, nel corso di lavori di edilizia privata, fu individuato in corso Annibale un impianto produttivo di età romana imperiale, costituito da una fornace, da una serie di unità abitative e ambienti di servizio. La struttura è stata inglobata e conservata a vista in un vano ricavato al piano terra dell'immobile, ai numeri civici 56-58. L'attività dell'impianto – inquadrabile nel II sec. d.C. – risulta connessa alla produzione di laterizi e ceramica di uso quotidiano. La fornace, costruita con frammenti di tegole e mattoni legati tra loro con argilla, è del tipo a corridoio centrale, con prefurnio e camera di combustione trapezoidale, con cinque pilastrini – lungo le pareti perimetrali – destinati a sorreggere il piano di cottura. |
Frammenti architettonici
Nei giardini dedicati ai Caduti sul Lavoro, sul Lungomare Vittorio Emanuele III, sono conservati alcuni elementi architettonici di età romana imperiale, provenienti da un'area pubblica, localizzabile fra le vie Pupino, Di Palma e Nitti.
I frammenti marmorei – fusti di colonne lisci o scanalati, cornici modanate, elementi di architravi con iscrizioni di magistrati ed un capitello ionico – sono riconducibili a monumenti diversi, sottoposti ad interventi o rifacimenti a partire almeno dal I sec. a.C. fino ad età tardoantica. Da questa area pubblica proviene – in particolare – un gruppo di quattro statue togate, acefale, ed una testa-ritratto dell'imperatore Augusto, rappresentato con il capo velato, nelle vesti di pontefice massimo, esposte nel Museo Nazionale Archeologico di Taranto. Con ogni probabilità si tratterebbe di un ciclo scultoreo a carattere onorario della famiglia giulio-claudia, originariamente dedicato in uno dei monumenti di questo grande complesso pubblico. |
Ipogeo Delli Ponti
Durante i lavori di restauro del palazzo omonimo furono scoperti alcuni resti delle antiche mura greche che circondavano l’acropoli, risalenti al V secolo a.C., nonché un ipogeo funerario con 8 tombe a fossa ricavate nella roccia e 8 tombe ad arcosolio disposte lungo le pareti.
Queste tombe, tutte di età paleocristiana, potevano contenere fino a 4 defunti. Le prime presentano una pianta rettangolare e sono disposte in gruppi di 3. Le seconde originariamente erano rivestite d’intonaco bianco e giallo. Le tombe risultano tutte violate, probabilmente fin dal VII secolo, mentre quelle a fossa non hanno restituito oggetti di corredo significativi. All’esterno delle sepolture, invece, furono ritrovati oggetti in ceramica di origine nordafricana e lucerne con simboli del Cristianesimo, utilizzate probabilmente durante le cerimonie funebri che prevedevano un banchetto con i defunti, usanza che aveva il nome di “Refrigerium”. |
Ipogeo Genoviva (tomba a 4 camere)
La tomba a camera – nota in ambito locale come ipogeo "Genoviva"" – fu rinvenuta nel 1968 e risulta attualmente inglobata in un ambiente seminterrato al numero civico 75 di via Polibio. L'ipogeo, relativo ad un nucleo familiare di ceto sociale elevato, sembra sia stato utilizzato tra il 330 a.C. circa ed il III secolo a.C., testimoniando – dopo l'interruzione agli inizi del V secolo a.C. – una nuova fase di monumentalizzazione della necropoli.
La maestosità dell'edificio è, tra l'altro, confermata dalla presenza dei numerosi elementi architettonici, conservati e visibili all'ingresso, relativi al naìskos, monumento funerario esterno che accoglieva una statua marmorea, di cui si sono rinvenuti frammenti. L'unicità della planimetria – sviluppata sul modello della casa a pastàs, con le camere allineate sul lungo vestibolo – la particolare cura architettonica e decorativa rendono questa tomba a camera particolarmente interessante. Una scala di accesso (dròmos) immette – attraverso una porta di tipo dorico, presumibilmente a doppio battente ligneo – in un lungo vestibolo a pianta rettangolare, su cui si aprono quattro celle funerarie, caratterizzate da un prospetto con semicolonne di ordine dorico. La struttura perimetrale, parzialmente intagliata nel banco roccioso, risulta costruita nella parte superiore con blocchi regolari di carparo, sormontati da una cornice modanata, su cui si impostava una copertura a lastroni. Le pareti intonacate conservano tracce dell'originaria decorazione pittorica: si osservi in particolare la cornice modanata ornata da un meandro in rosso e azzurro su fondo chiaro. Le porte delle celle – inquadrate dalle semicolonne – si presentano a doppio battente con dente d'incastro o monolitiche. All'interno della camera in asse con l'ingresso è visibile un letto funebre (kline), realizzato in un blocco monolitico di carparo, con margini rilevati in corrispondenza delle testate; nelle altre celle il letto funebre era probabilmente realizzato in legno, come documentato dalle quattro fossette angolari per l'alloggiamento dei piedi. Lo strato uniforme di intonaco – sulla linea di incastro fra i battenti delle porte e sui punti di giunzione con la parete monumentale – consente di ipotizzare una sigillatura delle singole celle successivamente al loro utilizzo. Poco chiara la funzione della fossa rettangolare antistante all'ingresso, nella quale sarebbero stati rinvenuti diversi resti ossei. |
Necropoli di via Marche
L'area archeologica – antistante il nuovo Tribunale di Giustizia di Taranto ed accessibile da via Marche – è stata individuata alla fine del Novecento e rappresenta il più grande settore con destinazione funeraria, attualmente visitabile della polis greca.
All'interno sono conservate circa 140 sepolture, riconducibili ad una delle zone più significative della necropoli tardo classica ed ellenistica. La documentazione archeologica testimonia una frequentazione del sito, prevalentemente per usi funerari, dalla fine del VII/prima metà del VI secolo a.C. fino al termine del III secolo a.C.. Il sito permette di iniziare, in maniera agevole, una visita all'interno della necropoli della città greca di Taranto, il cui impianto subisce un notevole sviluppo a partire dalle vicende politiche del V secolo a.C., allorché si registra l'ampliamento dell'abitato con la costruzione della cinta muraria difensiva e l'organizzazione di un tessuto stradale regolare che si estende sino ad interessare anche la necropoli. In questo settore la distribuzione delle sepolture sembra aver rispettato assi viari esistenti già in età arcaica; l'attuale passerella – realizzata per la fruizione del sito – ricalca infatti parte del percorso di almeno tre assi viari individuati al momento dello scavo: due in senso Nord-Sud, ed uno in direzione Est-Ovest, probabilmente una vera e propria plateia (la "via larga" delle poleis greche). In tale area è possibile, pertanto, riconoscere isolati regolari, progressivamente occupati da lotti familiari di deposizioni, fino alle soglie della definitiva conquista romana di Taranto del 209 a.C. Sono qui concentrate diverse tipologie di tombe: dalle tombe a sarcofago, a quelle più semplicemente scavate nella terra o nella roccia, oppure rivestite da lastre di carparo, il più delle volte caratterizzate da una controfossa e provviste di copertura a doppio lastrone, a superfici piane o a spiovente. Emergono, tra le altre, le tombe a camera, espressione di nuclei sociali più agiati, collocabili fra il IV ed il III sec. a.C., quando si rinnova la pratica della monumentalizzazione del sepolcro, interdetta dalle "leggi sul lusso" del secolo precedente che avevano imposto un'esibizione meno sfarzosa della dimensione funebre. Individuate in numero di otto, esse si collocano in posizione eminente, all'incrocio degli assi stradali o nei punti nodali degli isolati. Accessibili attraverso un dromos a gradini o a scivolo, risultano interamente costruite con blocchi regolari di carparo o parzialmente ricavate nella roccia e completate superiormente da blocchi squadrati e cornici aggettanti; le pareti si presentano – nella maggior parte dei casi – intonacate e dipinte. All'interno è visibile il letto funebre (kline), intagliato nella roccia, con piedi decorati, modanature e superfici stuccate e dipinte. |
Resti di portico
Nelle vicinanze del Circolo Nautico sono conservati i resti di un portico e di strutture murarie in opera reticolata, con paramento regolare. L'edificio, sulla base della tecnica costruttiva, potrebbe essere riferito al periodo di sviluppo urbanistico del municipio tarantino, all'epoca dell'imperatore Augusto, tra la fine del I sec. a.C. e gli inizi del I sec. d.C.
E' presumibile che si tratti di parte del prospetto di una villa – in area suburbana con affaccio sul Mar Grande – della quale è impossibile allo stato attuale definire lo sviluppo planimetrico. |
Sacello romano
Nell'area dell'Ospedale Militare, è visitabile – su richiesta – un piccolo, ma particolarmente suggestivo, edificio cultuale, di età tardorepubblicana (II-I sec. a. C.), rinvenuto nel 1901.
Si tratta di una cella rettangolare – non isolata, ma in connessione con altre strutture – accessibile da est attraverso una porta, di cui si conservano gli stipiti monolitici. Le pareti, con paramento esterno irregolare, sono ancora rivestite, all'interno, – in alcuni settori – da uno strato di intonaco con tracce di decorazione dipinta a fasce verticali in rosso. In asse con l'ingresso, è presente al centro un altare quadrato e sul fondo – sempre in allineamento – un alto basamento su cui è posto un blocco rettangolare in carparo con incavo centrale. Sulle pareti orientale e meridionale sono visibili stele in calcare bianco, compatto – di forma trapezoidale – su basi modanate in carparo. Si noti – in particolare – quella posta a sinistra dell'ingresso, decorata con una lunga torcia. Proprio tale simbolo e l'altare interno per offerte incruente potrebbero suggerire la pratica di un culto connesso ad una divinità femminile ctonia, cioè in stretta relazione con l'oltretomba: Dèmetra, Kore o Artemide/Hekàte. |
Tempio dorico
Il tempio dorico, costruito nel VI secolo a.C., è il più antico della Magna Grecia ed è l’unico edificio greco destinato al culto ancora visibile nella città vecchia. Alcuni studiosi hanno supposto che si tratti di un tempio esastilo, con sei colonne sui lati brevi e tredici su quelli lunghi.
Secondo studi recenti il tempio era dedicato ad una divinità femminile, legata ai riti di passaggio collegati al matrimonio. La successiva frequentazione dell’area dal tardoantico sino all’età moderna è documentata, malgrado le profonde manomissioni subite dal sito, da strutture di diversa funzione, connesse agli edifici religiosi dell’area ( quali il silos, le cisterne e le cripte-ossari). Del tempio si sono conservate solo tre colonne scanalate, costruite con rocchi di carparo, appartenenti al lato nord del tempio. I ruderi greci furono inglobati in edifici di età medievale e moderna, demoliti negli anni '70, tra i quali l'Oratorio della Trinità, di cui rimane il portale su Via Duomo. |
Tomba a camera di via Acton
Nel settore nord-orientale della città antica, a poche centinaia di metri dalle mura di fortificazione orientali, è stata individuata – nel 1982 – un'area di necropoli, caratterizzata da piccoli nuclei di sepolture, perlopiù di età ellenistica.
Una delle due tombe a camera ancora visibili – entrambe databili al III secolo a.C. – presenta un vestibolo, in parte ricavato nella roccia ed in parte realizzato con pietrame a secco, da cui si accede ad una camera funeraria rettangolare, scavata nella roccia, con una bassa banchina lungo le pareti. Due letti funebri (klìnai), intonacati e dipinti, con cuscino e con piedi a volute e palmette, sono intagliati nel banco naturale lungo i lati occidentale e meridionale; sulla parete orientale è invece addossato un piccolo sarcofago, ugualmente ricavato nella roccia e intonacato, sprovvisto di copertura. L'altra tomba a camera, in cattivo stato di conservazione, si presenta a pianta rettangolare, con le pareti originariamente rivestite di blocchi. |
Tomba a camera di via Pio XII
Al civico 55 di via Polibio, nel cortile condominiale, è conservato un ipogeo dipinto, databile nei primi decenni del III secolo a.C. Lungo i lati sono visibili frammenti relativi alla porta litica a doppio battente, dipinta a riquadri, ad imitazione delle porte lignee, ed alcuni blocchi di carparo con rosette a rilievo in giallo, pertinenti alla volta della camera funeraria.
Attraverso il dromos a nove gradini ricavati nella roccia, si raggiunge un piccolo vestibolo da cui si accede alla camera funeraria, in parte scavata nel banco roccioso e originariamente rifinita in alto da una cornice. Sulla parete di fondo è possibile ancora notare le tracce di una decorazione a ghirlande e a nastri, al di sopra della zoccolatura in rosso e di una fascia in azzurro. Ai lati della camera si conservano due klinai (letti funebri) con cuscino a rilievo e piedi a volute ioniche, dipinti in giallo e rosso. |
Tomba a camera di via Sardegna
In prossimità dell'Istituto Maria Ausiliatrice su via Umbria sono attualmente visibili due strutture monumentali ipogee, rinvenute nel 1955 in occasione della costruzione dell'Istituto salesiano.
Si tratta di due tombe a camera gemine, con dromos di accesso, a gradini nella parte superiore e a scivolo in quella inferiore, prossima al piccolo vestibolo. Le pareti risultano in parte ricavate nella roccia ed in parte costruite con blocchi squadrati e sono decorate da una greca in rosso e azzurro, con rosette a quattro petali, a colori alternati. La klìne (letto funebre) è, in entrambi i vani, addossata alla parete di fondo e presenta piedi sagomati a doppia voluta ionica e dipinti, materasso con margini arrotondati e cuscini alle due testate. I corredi rinvenuti consentono di datare queste due sepolture – costruite contestualmente e pertanto destinate ad uno stesso nucleo familiare - nell'ultimo trentennio del IV sec. a.C. |
Tomba a semicamera di via Alto Adige
Nel 1982, durante i lavori per la costruzione di un edificio scolastico, è stato rinvenuto un vasto settore di necropoli, caratterizzato dalla presenza di sepolture di diversa tipologia, prevalentemente di età tardo-classica ed ellenistica (IV-II sec. a.C.).
Le tombe a camera e semicamera erano scavate nella roccia e individuate all'esterno da sémata (segnacoli funerari) o naìskoi (monumenti funerari in forma di tempietto). La sepoltura visibile – databile nella seconda metà del III sec. a.C. – è del tipo a semicamera, a fossa rettangolare ricavata nella roccia, con controfossa per l'alloggiamento dei lastroni litici di copertura. Le pareti intonacate, eccetto una zona in prossimità del fondo, presentano una fascia continua di colore rosso, sul margine superiore; le nicchie semicircolari conservano tracce di colore rosso e verde. Lo scavo della tomba ha permesso di ipotizzarne un utilizzo successivo come luogo di scarico, dal momento che è stata rinvenuta priva di elementi di copertura. |
Tomba degli atleti
All'angolo tra via Pitagora e via Crispi, è visibile una grande tomba a camera, scavata in due fasi, nel 1917 e nel 1921. Il monumento – noto come "Tomba degli Atleti" – è il più importante dell'architettura funeraria tarantina di età arcaica (fine VI – inizi V sec. a.C.), posto in prossimità degli assi viari principali del tessuto urbano antico.
A pianta quadrangolare ed interamente costruita e pavimentata in blocchi regolari di carparo, la struttura presentava una copertura originaria con lastroni e architravi anch'essi in carparo, sostenuti da due colonne doriche, allineate al centro del vano. Lo spazio risulta organizzato sul modello dell'andròn, la sala da banchetto riservata agli uomini nella casa greca arcaica: i sette sarcofagi, uno dei quali non utilizzato, sono disposti – come i letti conviviali (le klinai) – lungo le pareti e con l'ingresso fuori asse per consentire l'alloggiamento degli stessi. Nello spazio centrale sono presenti copie del ricco corredo di accompagnamento – esposto nel Museo Nazionale Archeologico di Taranto – rinvenuto all'esterno e all'interno dei sarcofagi. Gli oggetti, come anche la struttura tombale, alludono agli aspetti rappresentativi della cultura aristocratica tarantina: l'atletismo ed il banchetto. All'esercizio ginnico e alla cura del corpo rimandano in particolare lo strìgile – strumento metallico per detergere l'olio misto a polvere di pomice con il quale l'atleta si cospargeva prima della gara, - e l'alàbastron – contenitore di alabastro per oli profumati. Particolare rilievo è riservato al centro della camera funeraria all'anfora panatenaica, premio tributato agli atleti vincitori nel corso delle gare che caratterizzavano le feste in onore della dea Atena, ad Atene. Tali vasi – destinati a contenere olio dell'Attica - presentano sul lato principale, nella tecnica a figure nere, Atena Pròmachos (combattente) e sul lato secondario la raffigurazione di una disciplina atletica. L'anfora di questo corredo allude – nello specifico – ad una delle competizioni più importanti: la corsa dei carri. Il pannello, a sinistra dell'ingresso, illustra anche le altre discipline sportive praticate all'epoca: il lancio del disco e del giavellotto, la lotta, il pugilato, il pancrazio, il salto in lungo e la corsa. Alla pratica del simposio, consumo in comune del vino nel banchetto, rimandano invece i vasi destinati a contenere, bere e versare il vino: crateri, coppe e brocche. Questo straordinario monumento funerario costituisce pertanto – per dimensioni, impianto e corredo – un'evidente testimonianza dell'alto livello sociale di appartenenza degli individui sepolti, uniti in vita – come in morte – da affinità politiche, culturali ed ideologiche. |
Museo Nazionale Archeologico di Taranto - MARTA | |||
Il Museo
Il percorso espositivo
Al centro della grande sala – destinata all’accoglienza del pubblico – giganteggia una copia della testa del colosso bronzeo di Lisippo, rappresentante Eracle, originariamente collocato sull’acropoli della città greca. Dal lato sinistro si accede al chiostro del Convento degli Alcantarini, ampiamente modificato rispetto al suo primitivo impianto architettonico e destinato alla presentazione degli aspetti tecnici della lavorazione della pietra, settore artigianale particolarmente fiorente nella polis, specie in età ellenistica. Al di là del chiostro sono invece collocati gli spazi per le mostre temporanee e la sala per conferenze ed altre attività culturali. Il Museo si articola su due piani e propone un nuovo percorso espositivo, che tenendo conto delle caratteristiche dei materiali e della possibilità di riferire ai contesti di scavo la maggior parte dei reperti, illustra la storia di Taranto e del suo territorio. Il percorso si sviluppa dal secondo al primo piano ed è ordinato per fasce cronologiche: periodo preistorico e protostorico, periodo greco, periodo romano, periodo tardoantico e altomedievale. Ampio spazio è riservato anche a tematiche specifiche, ad esempio la cultura religiosa e funeraria, l’economia e la produzione. Tutte le sale sono provviste di pannelli didascalici contenenti indicazioni sui singoli reperti e sui contesti di rinvenimento o approfondimenti tematici. Alcuni monitor touch screen, distribuiti lungo il percorso, consentono la consultazione di ipertesti con informazioni di carattere tecnico, iconografico, storico, mitologico e terminologico. Ampio spazio del primo piano è riservato all’esposizione dei meravigliosi reperti provenienti dalla necropoli di IV e III secolo a.C. Il percorso, sviluppandosi fino alle fasi della romanizzazione, presenta una significativa serie di elementi architettonici e figurativi di carattere funerario, oltre ad una grande varietà di corredi con eccezionali oreficerie. Le sale IX, X, XI e XIII offrono al visitatore rappresentative forme di architettura funeraria, illustrando nel contempo aspetti specifici del rituale connesso al culto dei morti. Nella sala IX, in particolare, sono presentati elementi architettonici pertinenti a monumenti funerari di diverse dimensioni, su alcuni dei quali è possibile ancora vedere tracce dell’originaria policromia. L’uso del monumento funerario esterno alla sepoltura si afferma a Taranto specialmente a partire dal IV sec. a.C.; accanto alla stele, ispirata a modelli attici, sono diffusi monumenti a pilastro e a colonna, isolati e sormontati da capitelli di ordine ionico, corinzio e corinzio tarantino, caratterizzato quest’ultimo dall’inserzione di soggetti figurati. Numerosi esemplari di capitelli di diverse tipologie si possono osservare al centro della sala. Sotto il grande schermo è collocato un cratere a volute in carparo, ulteriore esempio della straordinaria varietà morfologica di questi segnacoli funerari. Come si avrà modo di vedere anche nella sala X, i reperti esposti confermano l’esistenza di un artigianato vivace, legato all’utilizzo di pietre locali. Per le membrature architettoniche e per i fusti delle colonne si utilizzava prevalentemente il carparo, un tufo locale, mentre gli elementi decorativi erano realizzati con un calcare compatto bianco, la cosiddetta “pietra tenera”, proveniente da cave di Carovigno, Ostuni e Ceglie Messapica. Di fronte all’ingresso è possibile ammirare la ricostruzione del naiskos di via Umbria. Il naiskos è un tipo di segnacolo funerario che si diffonde a partire dall’ultimo trentennio del IV secolo, in coincidenza con il riaffermarsi dell’uso delle tombe a camera; esso – largamente rappresentato sui vasi apuli – era costituito da una piccola edicola su podio, all’interno della quale era collocata la statua del defunto. Nella ricostruzione del naiskos di via Umbria sono inseriti i soli elementi superstiti; in particolare si osservino le sei metope del fregio dorico che decorava il podio, incentrate sul tema della lotta tra Greci e barbari, molto diffuso nel repertorio figurativo di età ellenistica. Del prospetto dell’edicola si conservano una base di colonna, la decorazione del timpano con un corteo di divinità marine e frammenti degli acroteri con il mostro Scilla, allusione al mondo degli Inferi. Nella sala X, alle spalle del naiskos, è proposta la ricostruzione dell’ingresso dell’ipogeo delle Cariatidi, monumento unico ed eccezionale, particolarmente significativo per comprendere la diffusione delle forme espressive dell’artigianato tarantino in ambito apulo. L’entrata della tomba monumentale – riconducibile ad un ricco gruppo familiare della comunità di Basta, abitato messapico e poi romano, nel territorio di Poggiardo, nel Salento – era decorata da quattro cariatidi in pietra, poste sugli stipiti delle due porte e da un fregio di coronamento, con scena di corsa di trighe guidate da eroti e trainate da leoni. Una cariatide ed un frammento di fregio – confluiti nelle collezioni del Museo Provinciale di Lecce – sono sostituite da copie fedeli in resina, chiaramente riconoscibili. Pur nell’adozione di soluzioni tecniche e stilistiche di matrice tarantina, gli elementi decorativi rivelano influssi iconografici di altre correnti artistiche di età ellenistica, tanto nella scelta dei soggetti quanto nella resa, confermando ancora una volta la straordinaria originalità di questo monumento. A sinistra – nelle due vetrine affrontate ed addossati alla parete – sono esposti numerosi elementi architettonici figurati (metope, fregi ed acroteri) relativi a monumenti tombali. Il repertorio iconografico è strettamente connesso all’ambito funerario, privilegiando scene mitiche di rapimento o combattimento, cortei dionisiaci e di divinità marine, esplicite rappresentazioni di defunti nell’Ade. La vivace policromia – oggi quasi del tutto scomparsa – contribuiva a rendere più realistiche le scene di lotta e di ratto, allusive al passaggio tra la vita e la morte, così come le rappresentazioni dei cortei in onore di Diòniso, dio della rinascita. La sala XI è destinata alla presentazione dei ricchi corredi rinvenuti sia nelle sepolture di inumati che nelle tombe ad incinerazione, rito che – già attestato sporadicamente nel VII secolo a.C. – si diffonde nuovamente a Taranto nei decenni finali del IV secolo; tale rituale funerario può, con ogni probabilità, essere messo in relazione con l’arrivo di truppe mercenarie al seguito dei condottieri stranieri, intervenuti in difesa di Taranto. L'esposizione consente di apprezzare subito il particolare gusto e la ricercatezza della produzione orafa tarantina – in grado di impiegare in modo estremamente raffinato le differenti tecniche di lavorazione dei metalli preziosi – che conosce un particolare sviluppo tra il IV ed il II secolo a.C. Nelle vetrine è presentata un’ampia esemplificazione di diverse oreficerie, usate come ornamento in vita o realizzate appositamente per essere deposte nella tomba: orecchini, collane, bracciali, anelli, diademi e corone, alcuni spesso in associazione in vere e proprie parure. Con i celebri ori di Taranto sono esposti gli altri oggetti facenti parte del corredo funebre o terrecotte figurate atte ad illustrare l’uso di tali ornamenti personali. Gli orecchini rappresentano i monili più frequentemente attestati, in una grande varietà di tipi: a disco con pendente, ad elice e a navicella. Si osservi, in particolare, l’esemplare della vetrina 9 – eccezionale per dimensioni –, caratterizzato da un’esuberante decorazione fitomorfa, ottenuta con la tecnica della filigrana e della granulazione, ed ornato da pendenti e figurine femminili alate (Nikai) alle due estremità. Accanto sono esposte riproduzioni fedeli in terracotta dorata e lamina aurea, destinate a soddisfare – con un costo più accessibile – le esigenze di una clientela meno abbiente. Anche gli anelli digitali presentano tipologie diversificate: a castone inciso, con pietra incastonata e a scarabeo girevole, con funzione di sigillo. Si segnala l’anello a scarabeo in oro, databile al terzo venticinquennio del IV secolo a.C., esposto nella vetrina 8; sulla faccia piana del castone mobile è rappresentata una figura femminile identificabile – grazie all’iscrizione in lettere greche – con Elettra, afflitta per la morte del padre Agamennone. Le collane sono note da pochi esemplari; le più antiche sono costituite da vaghi di forma diversa (sferici, tubolari, a rosetta) ed erano cucite o fermate con fibule sull’abito. Agli inizi del III secolo a.C. si diffondono tipi con catene di maglie e terminali conformati a protomi leonine o a palmetta. Anche l’uso dei bracciali è documentato da pochi ritrovamenti. Particolarmente interessante è il bracciale serpentiforme in oro, riprodotto sugli avambracci bronzei dello schiaccianoci esposto nella vetrina 14. Si tratta di uno straordinario prodotto della toreutica tarantina della fine del IV secolo a.C., di cui si ignora il significato simbolico, nell’ambito di un contesto funerario. Tra gli oggetti di ornamento, in particolare i diademi – destinati ad adornare e trattenere le chiome femminili – rivelano la straordinaria abilità tecnica degli artigiani tarantini. Tipico è il diadema tubolare, costituito da una lamina ricurva, liscia o decorata da motivi vegetali, e fissato sul capo tramite nastri. Un uso esclusivamente funerario è da attribuirsi alle corone a foglie vegetali, in sottile lamina d’oro, argento o bronzo dorato, attestate sia in sepolture femminili che maschili. Si osservi, in particolare, la corona a foglie bronzee di mirto, con bacche in terracotta dorata, posta intorno al collo di un’hydrìa in bronzo – utilizzata come urna cineraria - esposta nella vetrina 5 e databile intorno al 330 a.C. Nella vetrina centrale sono presentati due corredi provenienti da centri del territorio, influenzati dalla cultura greca di Taranto. Su un lato una splendida parure aurea da Crispiano, costituita da un diadema e da un paio di orecchini, inquadrabile nel secondo venticinquennio del IV sec. a.C. Il diadema – il cui effetto ornamentale è esemplificato dalla testa fittile policroma, collocata nella stessa vetrina – è costituito da una lamina ricurva, decorata da motivi vegetali in filigrana e da un cespo di acanto centrale, su lamina, saldato al diadema solo inferiormente. Gli orecchini sono del tipo a disco – decorato da una rosetta in filigrana – con triplice pendente: tra due catenelle laterali a vaghi biconici e sferici, si inserisce un pendente a testina femminile a tutto tondo. Realizzata a sbalzo, rivela una straordinaria perizia tecnica nella resa dei dettagli anatomici, della capigliatura ed in particolare dei gioielli; oltre agli orecchini a grappolo e la collana a pendenti, si osservi, in particolare, il diadema frontale, di un tipo simile a quello rinvenuto nella tomba. Sull’altro lato è presentato un corredo proveniente da Mottola e databile agli inizi del III secolo a.C.. La collana è costituita da un nastro piatto, formato da sei catene a maglia doppia saldate tra loro e provvisto di terminali a palmetta, decorati in filigrana. Il bracciale è del tipo a verga tortile, avvolta a spirale con protomi di antilope alle estremità. L’anello presenta sul castone circolare un volto femminile di profilo, adorno di gioielli e con acconciatura “a melone”; l’iconografia, riconducibile ad ambito alessandrino, ne consentirebbe l’identificazione con un membro della dinastia tolemaica. Splendidi per la raffinatezza dell’esecuzione sono anche i corredi, provenienti da Ginosa ed esposti nella vetrina 18, caratterizzati dall’associazione di orecchini a pendente conico e diadema aureo con nodo erculeo. Il percorso espositivo prosegue con la sala XII, dove sono presentati alcuni corredi, che dimostrano la diffusione in diversi centri dell’Apulia dei prodotti orafi tarantini. La vetrina a sinistra contiene corredi da S. Paolo Civitate, Carbonara ed Egnazia, costituiti da straordinarie oreficerie e statuette, testimonianze evidenti dell’adesione delle aristocrazie indigene della Daunia, della Peucezia e della Messapia alle forme rituali e al linguaggio artistico greco e magno-greco. Si noti, in particolare, il meraviglioso sigillo in cristallo di rocca, realizzato agli inizi del III secolo a.C. da artigiani tarantini, esperti nella tecnica dell’intaglio. Sulla trasparenza del cristallo è illustrata una scena di lotta tra animali; pur nella mancanza di proporzioni, il cane assalitore ed il cervo in fuga rivelano una notevole resa naturalistica. Nella vetrina 21, a destra della sala, è esposto il corredo della celebre “Tomba degli Ori” di Canosa, importante centro dell'antica Daunia. La sepoltura, rinvenuta nel 1928, deve il suo nome agli ori e argenti di altissima qualità, appartenenti ad un’aristocratica del luogo, Opaka Sabaleida, il cui nome è inciso sulla cerniera della conchiglia portacosmetici in argento. La straordinaria teca è formata da due valve riproducenti la forma del Pecten Jacobaeus (cozza San Giacomo); all’interno e all’esterno del coperchio, con tecnica a sbalzo, è rappresentata una Nereide, divinità degli abissi, a cavallo di un mostro marino. La decorazione è animata da sapienti giochi cromatici, derivanti dal contrasto tra la superficie in argento e le parti arricchite da dorature. Analoga perizia tecnica si riscontra nello specchio a scatola, ornato sulla faccia esterna – a sbalzo e a cesello – da una figura femminile (una Musa o Afrodite), circondata da Eroti suonatori. Sempre all’ambito della cosmesi rimandano le coppe in vetro, utilizzate per la preparazione di sostanze per il trucco; all’attività della filatura alludono, invece, il fuso e la conocchia in osso. Interessante lo scettro con anima lignea, rivestita da una lamina aurea traforata e sormontato ad una estremità da due figure femminili alate (Nikai). Gli oggetti di ornamento personale sono rappresentati – tra gli altri – da una coppia di orecchini con grappolo in pasta vitrea e da una collana a nastro piatto con pendenti e terminali a palmetta. Eccezionale il diadema floreale, realizzato a giorno su un sostegno laminare e arricchito dall’inserzione di pietre preziose e smalti: gruppi di fiori, bacche e foglie, riuniti a mazzetti, si distribuiscono sul supporto – intervallati da un nastro laminare – con un vivace e naturalistico effetto cromatico. L’unico oggetto non pertinente alla deposizione femminile è il corno d’argento, relativo all’elmo di un individuo maschile, sepolto insieme all’armatura da parata. Il percorso dedicato alla necropoli ellenistica si conclude nella prima parte della sala XIII. Il lato sinistro offre al visitatore un ampio repertorio di segnacoli funerari: dalla stele, ispirata a modelli attici, con defunto in nudità eroica, alla stele con motivi floreali ed iscrizione, ai vasi a figure rosse, alle teste di statue funerarie: la presentazione in successione dei reperti contribuisce sapientemente a rievocare l’impressione procurata da una passeggiata tra le strade della necropoli tarantina. Le vetrine sulla destra accolgono altri corredi, relativi sia ad inumazioni che ad incinerazioni. Nella prima, sono esposte delle appliques in terracotta dorata, utilizzate per decorare – con elementi floreali o soggetti antropomorfi – sarcofagi e letti funebri. Si osservi – nella stessa vetrina, in posizione centrale – un’interessante lekythos sovraddipinta, decorata da un enigmatico volto femminile ammantato, all’interno di una finestra. Altre vetrine della sala hanno carattere tematico, consentendo – attraverso un’accurata scelta di reperti significativi – l’approfondimento di alcuni aspetti della cultura tarantina. Nella 26 – dedicata al mondo dell'infanzia – trovano posto i giocattoli, rinvenuti in sepolture infantili. Ai più piccoli erano destinati i tintìnnabula (sonaglini), esposti a sinistra, che, scossi – per la presenza all’interno di una sferetta in terracotta –, producevano suoni per distrarli e divertirli. Si osservi, inoltre, il guttus (vasetto con beccuccio), configurato a forma di animale, utilizzato come poppatoio. Particolarmente interessante la bambola in terracotta con arti snodabili, della seconda metà del IV sec a. C., cui si associano svariate raffigurazioni, sempre in terracotta, di animali che accompagnavano i bambini nei loro giochi e nelle loro fantasie. Alcuni di questi giocattoli - collegabili ai riti di passaggio dall'adolescenza all'età adulta - erano montati su ruote per essere trascinati, come se fossero veri. Le vetrine successive sono riservate al teatro: in particolare, nella 27, sono esposti alcuni strumenti musicali, come flauti e crotali (simili alle nacchere), e due crateri a calice, a figure rosse, con scene ispirate a tragedie e drammi satireschi di grandi autori greci. Si segnala, in particolare, la raffigurazione dell’episodio dell’oltraggio a Cassandra, uno dei più noti collegati alla caduta di Troia. La vetrina 28 accoglie una serie di maschere fittili di carattere comico, statuette di attori, acrobati, giocolieri; si segnala, in particolare, la figurina dell’acrobata nuda, immortalata in bilico sulle braccia, mentre si esibisce in ardite acrobazie. La farsa fliacica – rappresentazione improvvisata e marcatamente caricaturale – trova espressione nelle scene figurate sui vasi. Si osservi l’oinochoe sovraddipinta che mostra un attore fliacico dipinto con colori aggiunti sulla superficie nera del vaso. Il buffo personaggio – nell’accentuata imbottitura del costume scenico – rappresenta, in chiave parodistica, un vincitore della corsa con le fiaccole. Anche la successiva vetrina, la 29, ha carattere tematico: le diverse offerte votive esposte – provenienti da aree di santuario e da aree funerarie, illuminano su alcuni aspetti della cultura religiosa. Testimonianze di un’abbondante produzione fittile sono le tabelle votive, recanti le immagini di Castore e Polluce, i gemelli protettori dei naviganti. Il loro culto, attinto dalla cultura religiosa di Sparta, è ampiamente documentato a Taranto da questi pìnakes, con la rappresentazione delle imprese dei due fratelli divini o i loro principali attributi iconografici, come i cavalli, i rami di palma o le caratteristiche anforette, visibili in basso. Le terrecotte – realizzate in serie e a matrice – raffiguranti soggetti stanti con vari attributi (palla, volatile, strumento musicale, patera) sono invece riconducibili al culto di Hyakinthos - il bel fanciullo di cui si era invaghito Apollo - e della sorella Polyboia. Tali statuette, in particolare, potrebbero porsi in relazione con specifici riti di passaggio fra fasce di età. La vetrina centrale è destinata alla presentazione di armi, riconducibili al momento della conquista romana. È possibile ammirare un’armatura completa, rinvenuta a Canosa, conquistata dai Romani alla fine del IV secolo, e due elmi bronzei, provenienti da Taranto, della fine del III sec. a.C. Gli elmi, rinvenuti in una sepoltura con doppia deposizione, sono del tipo a calotta con bottone terminale, paragnatidi mobili e paranuca, in dotazione all’esercito romano, della cui presenza a Taranto costituiscono una delle più antiche testimonianze. Alle spalle degli elmi, vi è una vetrina contenente un tesoretto di monete della zecca locale, coniate perlopiù nel III secolo a.C. e nascoste nei decenni finali dello stesso secolo – periodo particolarmente critico a causa della prima sconfitta ad opera dei Romani nel 272 a.C. e della successiva conquista di Quinto Fabio Massimo nel 209 a.C. L’ultimo settore della sala XIII ci conduce infatti gradualmente verso gli eventi che portarono alla definitiva sconfitta di Taras ad opera dei Romani, con la conseguente perdita della sua identità greca. La statuaria di II e I sec. a.C. rivela ancora una forte dipendenza dai modelli greci, come dimostrano la copia romana della testa di Eracle, replica in formato ridotto della testa del colosso bronzeo, realizzato da Lisippo alla fine del IV sec. a.C. e collocato sull’acropoli. I reperti, esposti in prossimità, confermano la straordinaria importanza riservata alla figura di Eracle: si segnala, in particolare, la base - con iscrizione dedicatoria – recante scolpita a rilievo una pelle di leone, di un tipo assimilabile all’iconografia del colosso lisippeo, ricordata dalla fonti antiche. L’eroe era rappresentato stanco, meditante, con il mento sostenuto dalla mano destra. I reperti esposti nelle vetrine della sala XIV, sul lato sinistro, mostrano con evidenza il distacco dalla tradizione precedente. Sono, infatti attestate nuove produzioni ceramiche: a pasta grigia, a pareti sottili e con decorazione a rilievo. Si segnala, in particolare, la ceramica da mensa, frequentemente rinvenuta in pozzi e cisterne; interessante l’esemplare integro di imbuto di grandi dimensioni, utilizzato per il trasferimento di derrate alimentari fra diversi contenitori. La riconquista romana del 209 ad opera di Quinto Fabio Massimo costituirà uno dei momenti più drammatici della vita della polis, per i saccheggi, le distruzioni e le stragi della popolazione. Le ricchezze e le opere d’arte dei Tarantini vengono depredate e portate a Roma in trionfo. Dopo l'89 a.C., comunità greca e colonia romana confluiscono in un’unica struttura amministrativa, un municipium, che sancisce l’omologazione completa di Taranto nell’Italia romana. Nella vetrina 33 è esposta la copia della tavola nona della legge municipale, recante principi relativi ad obblighi e poteri dei magistrati romani; accanto è presentato un frammento bronzeo originale della legge sulla restituzione dei debiti. In entrambi i testi vengono fornite norme per una corretta gestione della cosa pubblica. Chiaramente ispirata alla produzione statuaria greca – ed in particolare a modelli prassitelici - è la testa femminile in cui è possibile identificare la dea Artemide, posta al centro della sala. Sulla base delle caratteristiche tecniche e stilistiche, deve essere riconosciuta come una copia – pur sempre di altissima qualità – del I secolo a.C., prodotta presumibilmente in ambiente tarantino. Sul lato sinistro – tra le altre – sono presentate quattro statue acefale in marmo, ai lati di un ritratto dell'imperatore Augusto col capo velato. La testa – realizzata per essere inserita in una statua togata – mostra gli elementi tipici della ritrattistica ufficiale e la rappresentazione capite velato evidenzia, nel contempo, il ruolo civico e la devozione religiosa dell’imperatore. Il ritratto e le figure togate – relative ad un ciclo statuario di età giulio-claudia – erano esposti in un’area pubblica della città, da cui proviene anche un frammento di architrave con epigrafe, presentato sul lato opposto della sala, assieme ad altri elementi architettonici con iscrizioni. Nella stessa sala, sono visibili alcuni pavimenti musivi relativi a domus di età tardo repubblicana; accanto a quelli policromi, si distingue il mosaico in bianco e nero, realizzato con tecnica mista a ciottoli e tessere. Nella sala XV, sulla parete di fondo, è proposta la ricostruzione parziale del monumento onorario di Cneus Nearchus Nepos – esponente di una gens locale di origine greca, i Nearchi, - di cui rimangono la base e la copertura, riccamente decorati. Nella vetrina a sinistra, trovano posto alcuni arredi marmorei provenienti dalle domus urbane. Si tratta di elementi di sostegno di tavoli particolarmente lussuosi; alcuni piedi imitano zampe di animali, sormontate da una testa di felino, o riproducono figure umane intere o erme. Si osservi, in particolare, l’Erma in marmo del I-II sec. d.C., raffigurante Diòniso in età giovanile, con una corona di foglie di edera tra i capelli. La sala XVI ripropone l’atmosfera di una casa romana, attraverso la presentazione di tre splendidi pavimenti a mosaico e di alcune vasche e bacini, che – collocati nel peristilio – consentivano un uso scenografico dell’acqua. I mosaici - esposti secondo l’originaria disposizione - provengono da tre ambienti di una lussuosa dimora della fine del II secolo d.C., rinvenuta negli ultimi anni dell'800 nel borgo, durante la costruzione dell’Istituto Maria Immacolata. Il mosaico a sinistra presenta un tessellato a disegno geometrico, con losanghe inserite in uno schema a meandro. Il tappeto musivo – al centro - mostra uno schema compositivo, delimitato da un motivo a treccia, costituito da varie formelle – con motivi floreali, uccelli e frutta – e tre riquadri decorati con pantera, tigre e leone, sviluppati intorno ad un emblema centrale con la raffigurazione di un satiro e di una ninfa. Il repertorio figurativo di questo interessante pavimento attinge, pertanto, sia a motivi ricorrenti in tappeti musivi floreali e geometrici, sia alle nature morte di tradizione ellenistica ed appare largamente impiegato nelle sale da banchetto, dove i soggetti più comuni sono riconducibili, appunto, alla sfera dionisiaca. Il mosaico a destra è, invece, caratterizzato da uno schema ad ottagoni con motivi geometrici o floreali iscritti e risulta ispirato ad una diversa tradizione figurativa e tecnica, che ricorre all’impiego di tessere di dimensioni maggiori. L'esposizione relativa alla città romana prosegue nella sala XVII, dove sono esposti – a parete - altri pavimenti musivi di età imperiale, insieme agli arredi scultorei ed epigrafici di uno dei più grandi edifici termali della città, le terme Pentascinenses. L’uso prolungato di tale edificio pubblico – il cui primo impianto risale ad età augustea – ancora nel corso del IV secolo a.C. è confermato da un’iscrizione che ricorda il restauro ed il nome del privato che lo realizzò. Si osservi – fra le statue pertinenti a tale edificio – la figura del Genio carpòforo, recante nella clamide che copre il braccio sinistro, melegrane, uva e spighe; interessanti anche le due sculture raffiguranti un erote su delfino, da interpretarsi presumibilmente come elementi decorativi di vasche e fontane. Il pavimento – a destra - in tessere bianche e nere del II sec. d.C. proviene dall’area delle terme pubbliche e reca negli angoli l’immagine di una biga in corsa, prossima a superare la meta. Il tappeto musivo – a sinistra – è invece policromo ed è decorato da due grifi accovacciati ed affrontati ai lati di un kàntharos; il mosaico decorava probabilmente un triclinium, in considerazione dello spazio perimetrale, lasciato privo di decorazioni, eccetto che in corrispondenza dell’ingresso. Sulla parete di fondo, si staglia uno splendido mosaico policromo, databile agli inizi del II sec. d.C., con rosone centrale con fiore iscritto e velarium (tenda), ornati geometrici e motivi vegetali stilizzati – collegati da tralci spiraliformi -, entro riquadro decorato da una treccia |
Collezione Ricciardi
Il corridoio del primo piano, corrispondente agli ambulacri del chiostro, ospita la collezione dei quadri appartenuti al vescovo Giuseppe Ricciardi e donati nel 1909 – con lascito testamentario – al Museo di Taranto. Si tratta prevalentemente di quadri – dipinti ad olio su tela – di soggetto religioso, inquadrabili tra XVII e XVIII secolo e riconducibili alla produzione napoletana, con attribuzioni alla scuola di Luca Giordano, Andrea Vaccaro e Francesco De Mura.
Dall’accesso al corridoio è possibile ammirare la Deposizione di Leonardo Antonio Olivieri, del XVIII secolo. Il fulcro del dipinto è costituito dalla figura del Cristo morto, intorno al quale si dispongono gli altri personaggi: Maria Maddalena, inginocchiata a sinistra ed intenta ad ungere il corpo di Gesù con oli aromatici, contenuti in un recipiente, la Vergine che solleva il braccio del figlio, San Giovanni e Maria di Cleofe, in preghiera, entrambi in ginocchio. Alle spalle, due personaggi in piedi, Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea che indicano il sepolcro, sopra il quale volano tre angeli e, sullo sfondo, una sfocata veduta di Gerusalemme. Un’atmosfera notturna e pacata caratterizza l’Adorazione dei pastori, risalente al XVII secolo. Al centro, su un giaciglio di paglia, dorme Gesù, su cui si china, cingendolo amorevolmente con le braccia, la Vergine Maria; alle sue spalle, San Giuseppe, proteso verso il bambino. Il gruppo dei pastori, accorsi ad adorare Gesù, si dispone a ventaglio attorno alla sacra famiglia. Il fascio di luce, che penetra dall’alto ad illuminare il fulcro della scena, è fiancheggiato da una fitta schiera di cherubini e di angeli. Accanto, in pieno contrasto con il quadro precedente, la Strage degli innocenti risulta dominata da una forte tensione drammatica. L'opera si presenta articolata su due piani: sul fondo, il colonnato della reggia di Erode che, seduto sul trono, assiste al massacro; in basso, la dinamica scena della strage, con madri che tentano disperatamente di proteggere i figli dalla furia dei soldati. La drammaticità della scena trova il suo culmine nel corpicino infilzato dalla lancia, ostentato come un orrido trofeo. Si tratta, con ogni probabilità, di due bozzetti preparatori, attribuibili - per le soluzioni spaziali e coloristiche – alla scuola di Luca Giordano. L’Addolorata di Paolo De Matteis, databile all’inizio del XVIII secolo, è rappresentata di scorcio, con il cuore trafitto da un pugnale, simbolo tangibile del suo dolore. La profonda sofferenza della Vergine trova espressione nel dolente sguardo rivolto verso l’alto e nel gesto pietoso e rassegnato delle braccia allargate verso il basso. Sullo sfondo, caratterizzato da una luminosità soffusa, assistono alla scena due coppie di cherubini. Quattro bozzetti raffiguranti Quattro Profeti, del XVIII secolo, sono attribuiti a Francesco De Mura, allievo del Solimena. I personaggi, avvolti in ampi panneggi – poco riconoscibili come Evangelisti in assenza di specifici attributi iconografici – sono seduti su corpose nubi e vengono presentati nell’atto di scrivere su lunghi rotoli o di meditare. Le quattro figure emergono – con vivaci effetti chiaroscurali – plasticamente dal fondo, attorniati da angeli e cherubini. Il Martirio di San Sebastiano, di autore ignoto, operante tra la fine del Seicento ed il secolo successivo, è una replica, qualitativamente inferiore, del dipinto attribuito a Guido Reni, conservato nella Pinacoteca dei Musei Capitolini di Roma. Al centro della scena, San Sebastiano è raffigurato con lo sguardo rassegnato, volto verso l’alto, le braccia sollevate e legate ad un albero ed il corpo trafitto da due frecce; la figura si staglia contro la penombra del paesaggio circostante, rischiarato da nubi biancastre. Santa Cecilia che suona l’organo è un’opera di Rutilio Manetti, assegnabile tra il 1618 ed il 1626; l’attribuzione della tela è confermata dalla presenza della sigla del pittore sul bordo esterno dell’organo. La Santa – caratterizzata da un’accurata resa coloristica dei panneggi – è raffigurata mentre suona l’organo in un’atmosfera notturna, rischiarata solo da una fioca lucerna. In piedi, presso lo strumento, un angelo con spartito musicale, intento a cantare, mentre a sinistra, immerso nell’oscurità, un altro angelo poggia il piede sul mantice dell’organo e stringe tra le mani le cordicelle per regolare il flusso d’aria. La Circoncisione, olio su tela, è una replica in formato ridotto della tela realizzata nel 1590 da Federico Barocci e conservata al Louvre. La scena si svolge in un ambiente umile, dominato da un ampio tendaggio. A sinistra, in posizione centrale, il Gran Sacerdote che regge tra le braccia il bambino Gesù, mentre la figura di spalle si accinge a compiere il rito della circoncisione, sotto lo sguardo della Vergine, in ginocchio, e di San Giuseppe, alle sue spalle. Altri personaggi assistono alla scena, inquadrata in alto da due angeli in volo ed in basso da un agnello sacrificale e da vasi metallici. Il Transito di San Giuseppe, attribuito a Luca Giordano, è un dipinto del XVII secolo di notevole qualità per l’accurato gioco di luci ed ombre di ispirazione caravaggesca. Le figure emergono dal fondo scuro, squarciato al centro da una fonte luminosa che mette in evidenza le teste dei personaggi e la figura del Santo. La scena si sviluppa lungo la diagonale rappresentata proprio dal corpo di San Giuseppe, intorno al quale si distribuiscono, a partire da sinistra, il Cristo benedicente – dietro il quale si intravede una mano aperta in gesto di paura – la Vergine raccolta in preghiera, un angelo che sostiene il capo del moribondo e l’Arcangelo Michele – guida delle anime giuste verso il cielo – che chiude a destra la composizione. Dall’ombra emergono, appena accennate le teste dei cherubini che assistono alla scena. L’Addolorata tra i Santi Nicola e Barbara della prima metà del XVIII secolo è attribuita a Leonardo Antonio Olivieri. La scena – caratterizzata da un’accurata resa naturalistica – è dominata dalla figura della Vergine che, con il petto trafitto da un pugnale, si abbandona – alla vista del sudario con il volto di Cristo – tra le braccia di due angeli. In basso, in piedi a sinistra, San Nicola in abito vescovile, e in ginocchio a destra, Santa Barbara con un fascio di fulmini nella mano destra. Il dipinto raffigurante la Maddalena, opera riconducibile all’attività di Francesco Solimena o della sua scuola (XVII-XVIII secolo), è caratterizzato da un’intensa ricerca luministica: il chiarore del corpo e del volto, incorniciato da lunghi capelli biondi, emerge – con resa naturalistica – dal fondo scuro della tela. La Maddalena è colta in atteggiamento penitente e meditativo, mentre stringe tra le mani un teschio, simbolo della fragilità dell’esistenza umana. Si appoggia ad un masso su cui è posta una piccola forma di pane ed è coperta da una stuoia di tessuto grezzo, elementi che alludono entrambi ad una vita misera e solitaria. A sinistra, emergono dall’ombra due teste di cherubini. Al termine del corridoio, sulla parete di fondo, è possibile ammirare una pregevole icona bizantina di autore ignoto, risalente al XIII secolo e raffigurante una Madonna con bambino, secondo un’iconografia ampiamente attestata nel XIII e XIV secolo: la Vergine Hodigitria, protettrice dei viandanti e dei messaggeri. Su uno sfondo dorato, coperta da un mantello amaranto, orlato d’oro, la Vergine regge con il braccio sinistro il bambino, con veste bianca e mantello dorato, che protende la mano destra in segno di benedizione, mentre nella sinistra reca il rotolo della Nuova Legge. Due angeli in preghiera sono collocati agli angoli superiori dalla composizione, al di sotto dei quali sono ancora leggibili le iscrizioni esegetiche in caratteri greci (Madre di Dio e Gesù Cristo). |
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Taranto Città Vecchia | |||
Castello Aragonese
Il Castello Aragonese di Taranto, detto anche Castel Sant'Angelo, occupa - con la sua pianta quadrangolare e il vasto cortile centrale - l'estremo angolo dell'isola su cui sorge la città vecchia.
Il sito ha una storia lunga ed articolata, che ha visto susseguirsi strutture greche, bizantine e normanno-svevo-angioine, ancora leggibili. Il primo nucleo del castello risale al 916, quando i Bizantini iniziarono la costruzione della "Rocca" a protezione dagli attacchi dei Saraceni e della Repubblica di Venezia. Questa prima fortificazione era costituita da torri alte e strette, dalle quali si combatteva con lance, frecce, pietre, ed olio bollente. Come testimonia un’iscrizione sul torrione che guarda alla città vecchia , nel 1486 Ferdinando II d'Aragona ordinò di ampliare il castello e di modificare la struttura, per adattarlo alle nuove tattiche di difesa . Dopo la scoperta della polvere da sparo erano necessarie torri larghe e basse, di forma circolare per attutire l'urto delle palle di cannone; esse, inoltre, dovevano avere rampe o scivoli che permettessero lo spostamento dei cannoni da una torre all'altra e parapetti per le bocche da fuoco. La struttura, quadrangolare, era impostata su cinque torrioni cilindrici. I torrioni denominati S. Cristoforo, S. Lorenzo, S. Angelo guardavano verso l'attuale canale navigabile, i torrioni denominati dell’ Annunziata e della Bandiera erano rivolti verso la verso la città vecchia. Il torrione S. Angelo è stato abbattuto alla fine dell’Ottocento per far posto al Ponte girevole. Il castello era dotato di due uscite corrispondenti a due ponti levatoi: uno univa il castello alla città nuova e l’altro univa il castello con la città vecchia. Con l'arrivo degli Asburgo nel 1707, il castello divenne una prigione, ma con Napoleone Bonaparte ritornò alla sua funzione originaria. I lavori per l'attuale canale navigabile e il Ponte Girevole furono ultimati nel 1887, quando il castello diventò sede del Comando della Marina Militare. Si entra nel castello percorrendo il ponte che lo collega alla città vecchia . Subito dopo l'ingresso, sulla sinistra del vestibolo, si apre la cappella rinascimentale dedicata a S. Leonardo. Qui fu celebrato il matrimonio tra Maria d’Enghien e Ladislao di Napoli. Sul lato sinistro del cortile vi sono i locali in origine adibiti a caserma; di fronte, il grande androne con volta a botte dell'ingresso di levante dove si attestava l'antico ponte, e da dove inizia l’attuale scalinata di discesa a mare. A destra si eleva il maschio che in epoca aragonese aveva funzione di vedetta. La scala accanto conduce al piano degli alloggi, in cui soggiornavano i reali d’Aragona durante le loro visite a Taranto e che oggi ospitano gli uffici della Marina Militare. Grazie alla disponibilità della Marina Militare è possibile, ogni giorno, visitare il Castello e gli importanti ritrovamenti storici ed archeologici che ne stanno riscrivendo la storia più antica. |
Tempio Dorico
Il tempio dorico, costruito nel VI secolo a.C., è il più antico della Magna Grecia ed è l’unico edificio greco destinato al culto ancora visibile nella città vecchia. Alcuni studiosi hanno supposto che si tratti di un tempio esastilo, con sei colonne sui lati brevi e tredici su quelli lunghi.
Secondo studi recenti il tempio era dedicato ad una divinità femminile, legata ai riti di passaggio collegati al matrimonio. La successiva frequentazione dell’area dal tardoantico sino all’età moderna è documentata, malgrado le profonde manomissioni subite dal sito, da strutture di diversa funzione, connesse agli edifici religiosi dell’area ( quali il silos, le cisterne e le cripte-ossari). Del tempio si sono conservate solo tre colonne scanalate, costruite con rocchi di carparo, appartenenti al lato nord del tempio. I ruderi greci furono inglobati in edifici di età medievale e moderna, demoliti negli anni '70, tra i quali l'Oratorio della Trinità, di cui rimane il portale su Via Duomo. |
Monastero di San Michele
Il monastero di San Michele, ubicato tra Via Duomo e Piazza Castello - alle spalle delle colonne doriche -, fu edificato nel Settecento.
La struttura esterna è semplice e lontana dai preziosismi del barocco. Di particolare rilevanza è il chiostro quadrangolare che poggia su 12 pilastri con 3 arcate per lato e 12 volte a crociera. I lavori di consolidamento hanno messo in luce, sotto il chiostro, una grande cisterna d’acqua che, oltre alle esigenze degli abitanti del convento, costituiva, in caso di forte siccità, una ulteriore riserva d'acqua per la cittadinanza. La chiesa, caratterizzata da un’architettura in stile barocco, ha una pianta rettangolare e presenta una navata unica coperta da 3 volte arricchite da stucchi. Le pareti presentano 3 arcate cieche per lato, delimitate da 4 pilastri dorici. Sull’altare maggiore, nel presbiterio delimitato da marmi policromi, vi è una statua seicentesca dell’Immacolata. Davanti al portale della chiesa si conservano alcuni rocchi di colonna in granito, provenienti da edifici di età classica. A partire dalla seconda metà del XIX secolio l convento fu più volte modificato ed ebbe diverse destinazioni: fu caserma, scuola, ufficio postale. Parte del convento, restaurato nel 2000, è sede dell’istituto musicale dedicato a Giovanni Paisiello, importante compositore tarantino del '700. Il convento è visitabile dal lunedi al venerdi. La chiesa è officiata la domenica alle ore 11,30. |
Palazzo Galeota
Il Palazzo Galeota sorge in Via Duomo, la strada più rappresentativa della Città Vecchia di Taranto, nei pressi della Chiesa e del Convento di San Francesco, di fronte alla “postierla” Immacolata.
E’ un tipico esempio di residenza nobiliare del XVII secolo, attualmente utilizzato quale sede dell'Assessorato alla Programmazione Culturale, Sport e Tempo Libero del Comune di Taranto. Edificato nel XVII secolo per volere di don Vincenzo Cosa, passò alla famiglia Calò e, nel secolo successivo, alla famiglia Galeota. Il portale principale è caratterizzato da lesene e mensole riccamente decorate con elementi vegetali e figure antropomorfe. All’interno, oltre l'androne caratterizzato dalle decorazioni a stucco, vi è un piccolo cortile, attorno al quale si aprono numerosi ambienti di servizio. Dall'androne di accede alla scala, a doppia rampa, che conduce ai piani superiori. |
Ipogei Delli Ponti
Durante i lavori di restauro del palazzo omonimo furono scoperti alcuni resti delle antiche mura greche che circondavano l’acropoli, risalenti al V secolo a.C., nonché un ipogeo funerario con 8 tombe a fossa ricavate nella roccia e 8 tombe ad arcosolio disposte lungo le pareti.
Queste tombe, tutte di età paleocristiana, potevano contenere fino a 4 defunti. Le prime presentano una pianta rettangolare e sono disposte in gruppi di 3. Le seconde originariamente erano rivestite d’intonaco bianco e giallo. Le tombe risultano tutte violate, probabilmente fin dal VII secolo, mentre quelle a fossa non hanno restituito oggetti di corredo significativi. All’esterno delle sepolture, invece, furono ritrovati oggetti in ceramica di origine nordafricana e lucerne con simboli del Cristianesimo, utilizzate probabilmente durante le cerimonie funebri che prevedevano un banchetto con i defunti, usanza che aveva il nome di “Refrigerium”. |
Palazzo D'Aquino
Il Palazzo d'Aquino è il risultato di accorpamenti e adattamenti di edifici di varie epoche. Infatti già dalla stessa facciata principale si può notare la volontà di unificare la parte preesistente del palazzo stesso, arricchita con visibili apparati di ornamento, all'adiacente corpo di fabbrica, decisamente più essenziale nelle forme.
Il grande portale d'ingresso, oggi a malapena leggibile nel suo disegno originario, segue lo schema classico Catalano - Durazzesco dell'arco inscritto in un rettangolo, sormontato dall'Arma riquadrata. Il portale era fiancheggiato da due rocchi in granito che fungevano da paracarri, probabili reimpieghi provenienti dall'ipotizzata area sacra nella zona adiacente di Sant'Agostino. Un rocchio è conservato all'interno del cortile. Ai due lati del portale si aprono due grandi finestre rettangolari con cornici imponenti lavorate a listelli e con decorazione a rosetta, la stessa che si ritrova sulle finestre del cortile interno. Nell'assetto complessivo la 'facies' settecentesca resta quella prevalente dell'edificio, a differenza degli ambienti interni ormai del tutto alterati. Il palazzo ha una struttura quadrangolare che si sviluppa intorno ad un cortile interno ed i suoi ambienti sono distribuiti su quattro livelli: due piani fuori terra, un piano interrato ed un sottotetto. Dal portale di ingresso, superato l'androne coperto da una volta unghiata, si apre il cortile e la scalinata principale. Proseguendo sul lato sinistro, si apre un grande giardino, peculiarità del palazzo e fulcro della vita sociale e culturale della famiglia. Infatti il palazzo fu sede della cosiddetta 'Accademia degli Audaci' che, così come ricordano le due lapidi sulla facciata, venne ospitata all'interno della residenza familiare da Tommaso Niccolò D'Aquino. Dal giardino si poteva non solo accedere alle annesse sale per la musica e la biblioteca, oggi adibite ad uffici, ma anche avere una splendida vista a mare. Ai piani superiori si aprono numerose stanze oggi adibite ad uffici, mentre quelle dell'ala orientale del piano sono destinate a temporanee mostre d'arte. L'unica traccia delle pitture murarie che dovevano decorare gli interni sono oggi conservati in maniera alquanto labile, nella sala principale del primo piano. Inoltre da qui si accede ad una piccola terrazza, che offre un magnifico scenario del Mar Piccolo. Nel piano interrato sono emersi tratti dell'antica cinta muraria ed una colonna scanalata incassata proprio al di sotto dei blocchi di carparo. Il Palazzo, sede universitaria, è visitabile nei giorni feriali. |
Convento di San Francesco
Il convento di San Francesco d’ Assisi è senza dubbio tra i più importanti edifici storici della Città Vecchia di Taranto. Fu edificato da Filippo d'Angiò intorno al 1220 sulla preesistente chiesa di San Lorenzo per ospitare i frati francescani.
Successivamente, nel XIV secolo, fu edificata una chiesa più grande, dotata di cappelle private riservate ai cittadini eminenti. Della chiesa, dopo le manomissioni ottocentesche, restano parti del portale su via Duomo, brani della decorazione parietale e frammenti della cornice dell’arco trionfale. Importanti modifiche interessarono l'edificio tra seicento e settecento: la radicale trasformazione dell'edificio comportò la costruzione di un nuovo chiostro e del portale principale su Via Duomo, ispirato alla cultura barocca e realizzato in forme semplici ed eleganti. L’istituzione di un seminario all’interno del Convento fu un’ulteriore dimostrazione dell’importanza raggiunta dall’Ordine francescano non solo a Taranto, ma in tutta l’Italia meridionale. Dopo l’arrivo dei Francesi a Taranto all'inizio dell'800, il convento di S. Francesco d’Assisi fu dapprima adattato a caserma e quindi assunse varie destinazioni d'uso. Oggi è sede universitaria. |
Palazzo D'Ayala Valva
Il Palazzo d'Ayala-Valva è una delle più sontuose residenze nobiliari di Taranto.
Fu costruito nel Settecento dalla famiglia Marrese e acquistato, agli inizi dell’Ottocento, dalla Famiglia d’Ayala che lo modificò radicalmente, improntandolo all’estetica rinascimentale. Il palazzo presenta due facciate semplici e geometriche – spettacolare quella sul Lungomare Vittorio Emanuele II – ed è composto da tre piani. Il piano inferiore è adibito a rimessa. I due piani superiori hanno trenta stanze ciascuno, fra cui la sala del convivio, la sala delle porcellane e la biblioteca. La biblioteca ha un soffitto in legno suddiviso in quindici lacunari con le iniziali degli Ayala-Valva. Il caminetto in marmo ricorda quello disegnato dal Mantenga nella Sala dei Soli, nel castello di S. Giorgio a Mantova. Il salotto ha il soffitto ligneo e dipinti ad olio su tela; la sala degli stemmi è in stile tardo-gotico, mentre la saletta degli specchi in stile rococò. Monumentali sono la scala principale e la trifora che affaccia sul chiostro interno al palazzo. Le finestre dei prospetti di gusto rinascimentale, sono, a piano terra, ad arco a pieno sesto, al secondo piano architravate. Il palazzo non è visitabile. |
Monastero di Santa Chiara
Il monastero di Santa Chiara fu costruito dal medico tarantino Raffaele Pesce alla fine del ‘500 e completato nel 1621 dal Mastro Gian Tommaso Maldarizzi.
Per costruire il convento furono demoliti numerosi edifici che occupavano quasi interamente l’attuale Piazza Duomo. L’edificio presenta due facciate principali: quella su Piazza Duomo è un rifacimento moderno, mentre quella sul lungomare Vittorio Emanuele è tipica dell’edilizia conventuale, con linee semplici e con poche aperture all’esterno. All’intero sono presenti due chiostri con archi a tutto sesto che, nel primo, poggiano su colonne ottagonali, mentre nel secondo su pilastrini quadrangolari. Scavi archeologici hanno accertato la presenza sotto il primo chiostro di ambienti utilizzati originariamente per il deposito e per la raccolta di acqua piovana. Al piano terra si trova il parlatorio, con stucchi pregevoli, e la cappella, con altare decorato con marmi policromi. Particolarmente significativo è il vano, dotato di un piano girevole, destinato ad accogliere i bimbi lasciati in cura al convento. Attualmente il convento ospita il Tribunale dei Minori. |
Palazzo Carducci
Il Palazzo Carducci fu costruito nel 1650 per volere di Ludovico Carducci, discendente da una antica e nobile famiglia fiorentina.
Ha una superficie di circa 900 mq. L’ampio portone ha sulla volta lo stemma della famiglia e la croce dell’Ordine Sovrano di Malta, mentre l’ingresso ha il soffitto a cassettoni con travi dipinte a decorazioni floreali. Al piano nobile vi sono eleganti salotti e sale da pranzo, una biblioteca con oltre 5000 volumi e una cappella. L’ampio salone delle feste presenta 12 ovali dipinti da Cesare e Francesco Fracanzano, che raffigurano apostoli e santi. Preziose tele, porcellane e mobili antichi ornano tutti gli ambienti. Il palazzo ha subito varie trasformazioni nei secoli, sino al Novecento: la facciata interna, che affaccia sul cortile, è in stile Liberty. Sulla facciata esterna sono conservati diversi goggiolatoi conformati a testa di leone. Il Palazzo, attualmente non aperto al pubblico, è destinato a divenire una casa-museo. |
Convento di San Domenico
Il convento fu fondato nel 1349 sotto papa Clemente VI, circa 50 anni dopo la fondazione della chiesa.
L'edificio, costruito in carparo, ha subito nel corso dei secoli numerose trasformazioni tra le quali la più importante e radicale tra la seconda metà del XVII sec. e la prima del XVIII, sino ad essere destinato ad usi civili a partire dai primi decenni del XIX secolo. La parte più antica sembra essere il chiostro adiacente il lato sud della navata centrale della Chiesa; gli spazi aperti e gli archi furono chiusi per motivi di stabilità strutturale. Una trifora è l’unico elemento riconducibile ad epoca gotica. Il chiostro ha pianta quadrata ed il porticato che lo contorna è formato da sedici pilastri ottagonali sui quali, poggiano le arcate e le volte a crociera che coprono il portico perimetrale. Le arcate non rispettano lo stesso modulo: alcune sono a tutto sesto, altre accennano un'impostazione ogivale. E’ interessante notare nel chiostro la presenza di elementi architettonici antichi riutilizzati: nella muratura est del portico sono visibili due blocchi con una iscrizione in latino riutilizzati negli stipiti della porta e nella trifora; nella parete nord, invece, comune alla vicina chiesa, sotto il livello del pavimento del chiostro, sono visibili attraverso apposite aperture le costruzioni del tempio greco ed alcuni rocchi di colonne reimpiegati nelle fondazioni della chiesa. Su Largo San Martino si apre un altro cortile, a pianta irregolare e direttamente collegato alla chiesa. Al primo piano del convento, cui si accede tramite una scala settecentesca, simile a quella presente in Palazzo Pantaleo, sono disposti numerosi ambienti che conservano la struttura tipica dei monasteri, con lunghi corridoi su cui si aprono le cellette. Oggi l'edificio è in buono stato di conservazione ed è sede degli uffici e della biblioteca della Soprintendenza Archeologica della Puglia. |
Chiesa di San Domenico
La chiesa di San Domenico è situata dove sorgeva un tempio greco sui cui resti fu innalzata, in età alto-medievale, la chiesa di San Pietro Imperiale.
Come testimonia un'iscrizione in latino nello stemma del portale di ingresso l'attuale edificio venne costruito nel Trecento e dedicato a San Domenico da Giovanni Taurisano, un nobile franco-provenzale sceso in Italia al seguito di Carlo d'Angiò. La facciata, tardoromanica, è caratterizzata dal portale a sesto acuto con protiro sormontato dal rosone ed è completata da un coronamento ad archetti pensili trilobati. Il rosone presenta, al suo interno, sedici colonnine disposte a raggiera che sorreggono archetti a sesto acuto; le colonnine convergenti in un anello che racchiude l'Agnus Dei. Ai due lati del rosone si trovano due piccole colonne scanalate a spirale, sormontate da due leoni seduti. La scalinata fu costruita verso la fine del Settecento, quando fu creato il pendio San Domenico per raccordare la via Duomo con la parte bassa dell'isola. La struttura della chiesa presenta una pianta a croce latina con transetto corto e navata unica con coro quadrangolare, coperto da volta a crociera. All'interno, sia la copertura che il pavimento non sono originali, ma frutto dei restauri seguiti al crollo del soffitto, avvenuto nel 1965. Sul lato sinistro della navata si aprono quattro cappelle barocche, ampliate nel Settecento, le quali custodiscono altari, tele e statue di notevole pregio artistico, attribuiti ad artisti di riconosciuta fama. Nella quarta cappella, intitolata all'Addolorata, è custodita la statua omonima, che viene portata in processione il giovedì della settimana di Pasqua, durante i riti della settimana santa. La chiesa è visitabile tutti i giorni dalle 9:30 alle 12:00 e dalle 17:00 alle 19:30. |
Palazzo Pantaleo
Il palazzo fu costruito nella seconda metà del XVIII secolo. La facciata principale è interamente realizzata in carparo, una pietra calcarea estratta direttamente sul posto; essa è organizzata secondo uno schema asimmetrico caratterizzato dall'ampio portale centrale, a tutto sesto.
Il portale è sormontato da una larga balconata con ringhiera in ferro battuto e completato da un elegante lampione, anche questo in ferro battuto. Altri balconi, di minori dimensioni, completano le finestre laterali e quelle del secondo piano. Varcato l'ingresso, in fondo all'androne voltato ove campeggia lo stemma di famiglia, si accede al vano scala e di qui al piano nobile tramite una scalinata a doppia rampa. Lo stemma è caratterizzato da una torre merlata su cui vi è un leone rampante. A destra dell'androne si trovano le stalle, perfettamente conservate, con le piccole mangiatoie. Al di sopra delle stalle si aprono quattro camere disposte in asse che costituiscono un piccolo appartamento di servizio. A sinistra dell'androne si trova una rimessa , destinata al ricovero delle carrozze. L'ambiente di maggior pregio dell'appartamento principale è la galleria, il cui soffitto è decorato da tempere e da una grande tela ad olio inserita in una cornice dorata e raffigurante temi tratti dall'Eneide e dall'Iliade. Nel palazzo è ospitato il Museo etnografico, nel quale è esposta la collezione di Alfredo Maiorano, studioso che all’inizio del ‘900, raccolse una considerevole quantità di materiale inerente alle tradizioni popolari della città di Taranto. |
Torre dell'Orologio
La torre fu costruita nella seconda metà del '700; successivamente fu ingrandita e, nel 1800, dotata del campanile.
Sorse come posto di guardia per tutte le attività commerciali che si svolgevano in piazza Fontana. La torre e il suo orologio hanno scandito i tempi del mercato ortofrutticolo e della dogana del pesce che occupavano la Piazza Maggiore, diventando il centro della vita dei traffici di cittadini, forestieri, commercianti e pescatori. Attualmente ospita una mostra sulla mitilicoltura, intitolata “Il tempo del mare”. La mostra si articola in un percorso espositivo con foto d’epoca e diagrammi che raffigurano luoghi e fasi di allevamento dei mitili. Molto interessanti sono due acquari esposti all’interno della struttura che riproducono l’ambiente marino del Golfo con i frutti di mare tipici del Mar Piccolo e del Mar Grande. All’interno della Torre si trova un punto informativo destinato alle visite dei turisti, aperto la domenica dalle 11:00 alle 13:00. |
Cattedrale di San Cataldo
La cattedrale di San Cataldo è testimone di epoche diverse: la cripta è altomedievale, le navate sono romaniche, la facciata e le cappelle sono barocche.
La facciata della chiesa, ricostruita nel 1713, è semplice, ma impreziosita da quattro statue di Santi inserite in altrettante nicchie. Il finestrone del portale, incorniciato da due angeli che poggiano su un timpano spezzato, è abbellito da festoni floreali. In cima vi è la statua di San Cataldo. Le murature esterne delle navate laterali sono caratterizzate da archetti ciechi di diversa altezza, tipicamente romanici, e da pietre chiare e scure apposte come le tessere di un mosaico. I muri esterni della navata centrale sono, invece, decorati da nove archetti uguali tra loro, disposti tra una finestra e l'altra. I bracci del transetto e il tamburo della cupola sono decorati da archetti ciechi su semicolonne con capitello corinzio. Il campanile è un rifacimento della metà del '900. Dopo l'entrata troviamo un avancorpo quadrangolare, risalente al XIV - XV secolo. Nel vestibolo a sud sono situati la cappella di San Giuliano, il battistero e la cappella di San Giacomo. Sulle pareti del vestibolo vi sono due grandi dipinti che raffigurano scene della vita di San Cataldo, patrono della città. Di rilievo è la raffigurazione fantastica di Taranto. Le navate, erette nel secolo XI, sono scandite da nove colonne una diversa dall'altra; anche i capitelli sono tra loro eterogenei. I capitelli della navata destra sono di tipo corinzio, mentre quelli della navata sinistra presentano una sintesi di elementi bizantini, arabi e nordici. I due bracci del transetto sono coperti da una volta a botte. All'intersezione dei bracci è impostata una piccola cupola emisferica. Sull'altare maggiore vi è un ciborio seicentesco in pietre pregiate. Il coro presenta stalli lignei settecenteschi. Nel transetto si aprono due pregevoli cappelle barocche: il cappellone di San Cataldo e la cappella del Sacramento. IL CAPPELLONE DI SAN CATALDO Il cappellone è preceduto da un vestibolo a pianta quadrangolare, un'antica cappella medievale, ristrutturata nel secolo XVIII, dove è possibile ammirare due statue realizzate da un famoso artista napoletano: Giuseppe Sanmartino. Il cappellone fu costruito intorno alla seconda metà del XVII secolo, dopo che la cattedrale era stata devastata da un incendio. L'affresco del soffitto, dipinto nel 1711 da Paolo de Matteis, rappresenta San Cataldo in trionfo, ammirato da tutti gli altri Santi. La decorazione scultorea invece fu terminata da Sanmartino nel 1777. L'ambiente è interamente rivestito da marmi policromi. In una nicchia dietro l'altare maggiore troneggia la statua argentea di San Cataldo. All'interno dell'altare è conservato un antico sarcofago in marmo bianco che contiene i resti del santo. LA CRIPTA Dalla navata centrale si accede, tramite una scalinata, ad un vano sotterraneo, suddiviso in due navate e corrispondente al capocroce superiore. In questo ambiente sono conservati numerosi affreschi di artisti ignoti, risalenti al XIII e XIV secolo, in stile gotico. Nella zona absidale merita particolare attenzione l'affresco raffigurante San Cataldo, Santa Maria Maddalena e Santa Maria Egiziaca. L'unico reperto scultoreo della cripta è un sarcofago raffigurante l'anima di una defunta portata in cielo da due angeli. Le volte della cripta sono sostenute da colonne in pietre pregiate, frutto di spoglio di edifici antichi. Non si può dire con certezza a quale epoca risalga la cripta: alcuni studiosi ritengono che sia di epoca bizantina, altri propendono per una costruzione impostata secondo il modello cluniacense. La Cattedrale è aperta dalle 8:30 alle 12:00 e dalle 16:00 alle 20:00, la domenica tutto il giorno. |
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Crediti:
Docenti Liceo ARISTOSSENO: Bianca Maria Buccoliero, Caterina PolidoroCoop. NOVELUNE: Evelyn Fari, Giulio Calculli, Giovanni Berardi, Daniele Biffino, Cosimo Pace, Franco Zerruso D.S.G.A.: Maria Grazia Cammalleri Dirigente Scolastico: Salvatore Marzo Le registrazioni in francese sono state effettuate da Helene Frances Le registrazioni in inglese sono state effettuate da Rosalyn Duffy Le registrazioni in tedesco sono state effettuate da Laura Mita Le registrazioni professionali sono state effettuate presso Bright Sound Studio di Taranto |
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ricerca, documentazione, didattica e valorizzazione dei beni culturali e del paesaggio